Sicurezza e Democrazia by Filippo Venturi

La questione del riarmo europeo è un tema estremamente complesso e stratificato. Di sicuro è inadatto a essere liquidato con slogan come “UE guerrafondaia” o “Von der Leyen pazza”.

Per oltre 70 anni, una larga parte dell’Europa ha goduto di una pace senza precedenti. Dal 1945 a oggi la guerra non ha più toccato il territorio degli Stati dell’Europa occidentale, il che è un risultato straordinario se si considera la storia del continente. Questo lungo periodo di stabilità è stato possibile grazie a una combinazione di fattori. L’integrazione economica, lo sviluppo del mercato comune, la progressiva interdipendenza industriale e commerciale, ma soprattutto la scelta politica di ragionare come alleati e non più come rivali.

Un elemento strutturale è stato il ruolo degli Stati Uniti nella difesa del continente. I paesi europei hanno delegato una parte sostanziale della propria sicurezza agli USA (anche tramite la NATO), i quali hanno garantito un “ombrello di sicurezza” che ha consentito agli Stati europei di ridurre la spesa militare, investendo invece nello sviluppo economico, nel welfare state, nella sanità pubblica e nei diritti sociali.

Questo equilibrio prevedeva però anche una forma di subordinazione soft, cioè una dipendenza strategica consapevole e consensuale, in cui Washington assumeva il ruolo di alleato dominante, una sorta di fratello maggiore benevolo ma pur sempre con l'ultima parola. Una relazione che Donald Trump ha progressivamente trasformato in un rapporto più ricattatorio, simile a quello di un genitore severo e minaccioso.

Alcune dichiarazioni recenti suggeriscono che Trump e Putin condividano l'interesse a un indebolimento dell'UE. Può essere che i due stiano perseguendo questo scopo per puro senso di giustizia e per generosità? O forse è utile a entrambi una UE decaduta e frammentata in 27 paesi più deboli sotto ogni punto di vista, che dovrebbero per forza cercare riparo sotto l'ala egemonica statunitense o russa o cinese?

Il nodo politico fondamentale, oggi, è quindi comprendere se l’Unione Europea desideri davvero diventare una potenza fra le potenze, capace non solo di produrre ricchezza e norme, ma anche di garantire la propria sicurezza. Questo include inevitabilmente interrogarsi su un rafforzamento della difesa comune e, nel lungo periodo, sulla creazione di un vero e proprio esercito europeo, dotato di capacità di deterrenza credibile.

Altrimenti, l’Europa continuerà a essere l’unica grande area del mondo a difendersi con le sole buone intenzioni e con la diplomazia. Ma la realtà geopolitica attuale, con guerre alle porte dell’UE, un sistema internazionale sempre più instabile e potenze revisioniste in piena espansione, suggerisce che questo approccio non sia più sostenibile (e quando lo era, vedeva comunque il braccio armato americano sullo sfondo).

L’aspetto forse più delicato riguarda però il costo della democrazia. Mantenere società pluraliste, garantire diritti sociali e civili, sostenere sistemi sanitari pubblici funzionanti, investire in istruzione, ricerca, trasparenza e stato di diritto richiede risorse ingenti. Le dittature, al contrario, possono risparmiare tagliando tutto ciò che rende una società vivibile ma non di qualità.

L’augurio, e la sfida politica più grande, è che l’Unione Europea scelga di rafforzare la propria sicurezza senza scivolare nella logica competitiva delle autocrazie. Che non rinunci ai propri valori, ai diritti dei cittadini, ai servizi pubblici o al proprio modello sociale per stare al passo con chi basa il proprio potere sulla repressione anziché sul consenso.

[L'immagine è tratta dal mio lavoro "Broken Mirror", realizzato con l'intelligenza artificiale]

Nessun algoritmo genera curiosità by Filippo Venturi

Nessun algoritmo genera curiosità

Una riflessione sul rapporto dei giovani con l'intelligenza artificiale

Questa è una fotografia dell'auditorium di un Liceo Scientifico e Artistico di Rimini, dove ho tenuto un intervento su fotografia, informazione e intelligenza artificiale (IA) qualche giorno fa, a sei classi di età compresa fra i 16 e i 18 anni.

Al di là del piacere - e della speranza - di riuscire a fornire stimoli e contenuti utili a orientrarsi in questo panorama sempre più complesso e interdisciplinare, mi ha colpito una cosa che mi è stata riferita in via confidenziale prima dell'inizio del mio talk, e non per la prima volta in contesti scolastici: i giovani dimostrano poco interesse e molta diffidenza nei confronti dell'intelligenza artificiale.

Una buona parte di loro è critica perché lo vede come un modo per barare (nei compiti, ma anche nel produrre contenuti, arte compresa) e questo ha trovato conferma anche nei compiti scritti di alcuni loro compagni di classe che contenevano, a seguito di copia\incolla distratti, i suggerimenti classici di ChatGPT ("Vuoi che lo riscriva con un tono più professionale?", "Vuoi che ti faccia una tabella riassuntiva?", ecc).

Confesso che questa diffidenza non mi dispiace troppo (purché non si trasformi nel tempo in chiusura e rifiuto, ma resti un modo per avvicinarsi con prudenza e spirito critico), specie quando viene da persone che si stanno formando, che stanno costruendo un proprio metodo. È fondamentale attraversare quella fase formativa in cui si impara a consultare le fonti, assorbire informazioni, analizzarle e sintetizzarle in autonomia, mentalmente e per iscritto, senza delegare tutto ad un software basato su IA, limitandosi a imparare a memoria il riassunto generato.

Un concetto che non mi stancherò mai di ripetere è che i lavori visivi che ho svolto con l'intelligenza artificiale non li avrei potuti realizzare con lucidità e consapevolezza se non avessi avuto la mia "cassetta degli attrezzi" composta negli anni (ormai ho una età in cui posso dire nei decenni) da studi informatici, studi fotografici, lavoro sul campo, esperienza e confronto con altri autori. Inoltre i progetti che ho svolto, a parer mio, funzionano proprio perché realizzati con questa nuova tecnologia, criticando o evidenziando alcune caratteristiche (limiti e rischi compresi) di questa stessa tecnologia.

L’intelligenza artificiale può suggerire risposte, ma ai giovani (e non solo) serve soprattutto imparare a farsi le domande giuste e a mettere in discussione il mondo che trovano confezionato dagli adulti. Le risposte sono ovunque, immediate, spesso persino ridondanti; ciò che manca, e che nessuna macchina può generare al nostro posto, è la capacità di interrogarci sul mondo con curiosità e profondità.

Tavola rotonda su IA e Arte by Filippo Venturi

Giovedì 11 dicembre 2025, alle ore 20.30, presso la Fabbrica delle Candele a Forlì, avrò il piacere di partecipare a una tavola rotonda sul tema Intelligenza Artificiale e Arte, nell’ambito della serata intitolata “Oltre l’algoritmo” che chiude il corso di cinema AI Film Factory!

Una serata dedicata a esplorare l’intelligenza artificiale come nuovo mezzo creativo, accessibile e inclusivo, e a riflettere su come le tecniche artistiche tradizionali si trasformano quando incontrano gli strumenti dell’AI.

In programma:

  • Tavola rotonda moderata dalla giornalista Roberta Invidia, con Filippo Venturi (fotoreporter), Serge Gualini (artista AI), Francesca Leoni e Davide Mastrangelo (direttori artistici di Ibrida Festival).

  • Proiezione del cortometraggio di Francesca Fini, interamente realizzato con varie piattaforme di AI.

  • Presentazione dei lavori finali dei partecipanti ad AI Film Factory, il percorso formativo di 50 ore rivolto ai giovani dai 14 ai 35 anni.

L’ingresso è gratuito e aperto a tutte e tutti.

Sarà un’occasione per incontrarsi, condividere visioni e riflettere insieme sui linguaggi che stanno ridefinendo il nostro modo di creare e immaginare.

Il Signore degli Algoritmi by Filippo Venturi

[Una immagine dal mio lavoro “Broken Mirror”, realizzato con Intelligenza Artificiale]

Il Signore degli Algoritmi

Sorvegliare, prevedere, colpire: il futuro plasmato dalle grandi aziende tecnologiche

A maggio, nei giorni in cui lavoravo all’articolo sull’80° anniversario del lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki (uscito su FotoIT a novembre), mi è capitato di sentire il confronto avvenuto fra Alex Karp, CEO di Palantir Technologies, e una attivista pro-Palestina che lo aveva interrotto durante un intervento all’Hill and Valley Forum, un evento dedicato alla politica tecnologica.

Palantir Technologies è un’azienda statunitense specializzata nell'analisi dei big data (enormi quantità di dati, strutturati e non, così numerosi, vari e complessi da non poter essere gestiti con strumenti tradizionali) e nello sviluppo di sistemi basati sull’intelligenza artificiale (IA). L’azienda è storicamente legata ai governi americani che si sono susseguiti negli ultimi decenni e all’esercito. Fra gli scopi più controversi attribuiti all’azienda ci sarebbe l’uso dei big data, dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie per la sorveglianza per predire i crimini e chi li compirà. Uno scenario che ricorda il film “Minority Report” di Steven Spielberg e, prima ancora, il romanzo “Rapporto di minoranza” di Philip K. Dick.

Il nome dell'azienda deriva dai Palantir, chiamati anche Pietre Veggenti, manufatti dell'universo immaginario fantasy creato dallo scrittore inglese J.R.R. Tolkien. I Palantir, la cui traduzione è "Coloro che sorvegliano da lontano", sono sfere di cristallo che permettono a chi ne osserva una di vedere e comunicare, anche a grande distanza, con chiunque stia a sua volta osservandone un altro Palantir. L’azienda ha adottato questo nome perché intende offrire ai suoi clienti strumenti capaci di osservare e mettere in luce pattern invisibili dentro enormi masse di dati.

Nel report pubblicato il 30 giugno 2025 intitolato “From economy of occupation to economy of genocide”, la relatrice ONU Francesca Albanese accusa una quarantina di aziende — tra cui Palantir Technologies — di avere «fornito tecnologia di polizia predittiva automatizzata, infrastrutture di difesa per la rapida implementazione di software militari e piattaforme di IA per decisioni automatizzate sul campo di battaglia» alle Forze di Difesa Israeliane (IDF).

Tornando al confronto, la parte più interessante è la seguente:
«La vostra tecnologia uccide i palestinesi» ha urlato la manifestante.
«Per lo più terroristi, è vero», ha risposto Karp (non esistono dati univoci, le stime indicano però che tra il 60% e l’80% delle vittime complessive sono civili). 
[…]
«La più ovvia soluzione alla guerra [in Palestina] è che l’Occidente abbia le armi più forti, precise e letali possibili, così da poter ridurre al minimo le morti non necessarie, e il modo migliore per ridurre quelle morti è essere così forti da non essere attaccati. È proprio così che si fa!», ha concluso Karp.

Per il CEO di Palantir Technologies, quindi, l’unica via per preservare la pace passa attraverso il consolidamento di una superiorità tecnologico-militare schiacciante, resa possibile da sistemi d’arma sempre più autonomi, sempre più intelligenti, sempre più veloci nell’individuare un obiettivo e nel colpirlo. Questa idea che “per avere la pace bisogna essere i più forti” non è nuova. È la stessa logica che ha alimentato, oltre ottant’anni fa, la corsa alla bomba atomica.

Durante la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti investirono nel Progetto Manhattan somme imponenti per anticipare le ricerche della Germania. In questi anni una dinamica simile sembra ripetersi con l’intelligenza artificiale, in una corsa contro la Cina. Le grandi potenze — e con loro le aziende tecnologiche private che operano a stretto contatto con i governi — stanno riversando capitali colossali nello sviluppo di algoritmi capaci di orientare il campo di battaglia.

Il costo totale del Progetto Manhattan, dal 1942 al 1946, fu di circa 2 miliardi di dollari dell’epoca. A seconda del metodo di aggiustamento per l’inflazione, questa cifra viene spesso tradotta in circa 30–50 miliardi di dollari attuali. Il grosso del costo fu assorbito dalle infrastrutture, come gli impianti per l’arricchimento dell’uranio a Oak Ridge, i reattori a Hanford e il centro di ricerca a Los Alamos.

Secondo il Stanford Institute for Human‑Centered AI (HAI), la spesa federale americana per contratti legati all’IA è cresciuta da circa 3,2 miliardi di dollari (2022) a 3,3 miliardi di dollari (2023), ma a questa vanno aggiunti i costi sostenuti dalle Big Tech private, sempre più legate e dipendenti all’Amministrazione di Donald Trump, e che si stima investiranno fra i 300 e i 400 miliardi di dollari solo quest’anno.

Secondo una stima pubblicata dalla società Gartner nel 2025, la spesa globale per l’intelligenza artificiale (infrastruttura, software, servizi, hardware) è stimato che possa raggiungere circa 1,5 trilioni di dollari entro la fine dell’anno.

Allora si correva per costruire l’arma definitiva, quella che avrebbe garantito supremazia e deterrenza. Oggi la competizione riguarda sistemi di intelligenza artificiale capaci di sostenere nuove generazioni di armamenti autonomi, più efficaci e letali. Questa potrebbe essere anche una delle ragioni per cui quantità enormi di investimenti stanno affluendo verso aziende tecnologiche che, in realtà, continuano a registrare perdite significative o utili irrisori. Come nel 1945 il valore non risiede nei profitti immediati, ma nel vantaggio strategico e della promessa di un’egemonia futura.

Nei giorni scorsi Trump ha ribadito, con il lancio della Genesis Mission, definita dalla Casa Bianca come «il più grande motore della scoperta scientifica americana dai tempi del programma Apollo», la centralità dello sviluppo e implementazione dell’intelligenza artificiale nel sistema americano, nelle tecnologie e nelle ricerche future.

Il fatto che Palantir Technologies e altre compagnie tecnologiche siano tra le più vicine alle istituzioni politiche e militari non sembra più un dettaglio tecnico, ma un tratto distintivo di una nuova fase geopolitica. Una fase in cui tecnologia e guerra tornano a sovrapporsi, e in cui l’intelligenza artificiale rischia di diventare ciò che la bomba atomica è stata per il Novecento, cioè l’oggetto di una corsa che nessuno può permettersi di perdere, anche a costo di ignorare del tutto le conseguenze etiche e umanitarie.

E il giorno in cui questo risultato sarà raggiunto, servirà una dimostrazione di forza, che ci ricorderà nuovamente cosa accade quando la scienza e il potere si alleano senza limiti etici.

Interstizi di coscienza by Filippo Venturi

Il fatto che siano uscite le intercettazioni di Witkoff con Yuri Ushakov, dimostra che anche in una Amministrazione come quella americana, composta nei suoi vertici interamente da yes-man, qualcuno che è schifato c’è sempre.

Mi vengono in mente Fini e Alfano, che a loro tempo misero il bastone fra le ruote a Berlusconi, così come John Bolton con lo stesso Trump (al primo mandato) o Geoffrey Howe con Margaret Thatcher.

Pare che qualcuno dell'intelligence americana (vedi articolo del Guardian, “Chi ha leakato la telefonata di Witkoff?”) abbia voluto portare alla luce le porcherie di Trump e dei suoi uomini di fiducia nel portare avanti le trattative sull’Ucraina, concedendo tutto ai russi. Vedremo se queste interferenze si ripeteranno in futuro.

Non di rado, queste figure ribelli vengono emarginate e quindi è improbabile che facciano quel che facciano per un proprio tornaconto economico o politico. Evidentemente c'è un limite anche nel mangiare la m3rda.

Sembra che anche nei sistemi più verticali e asserviti, qualche individuo conservi un frammento di coscienza, al punto di spingersi a compiere un gesto di sabotaggio, che incrina l’ordine prestabilito. È come se, dentro ogni struttura di potere, sopravvivesse un interstizio in cui il senso di giustizia può ancora mettere radici.

Il bagliore che non svanisce by Filippo Venturi

Su FotoIT è uscito un mio articolo sulla fotografia giapponese in relazione al trauma nucleare di cui, quest’anno, cade l’80° anniversario. Si tratta del primo articolo in cui esploro il linguaggio fotografico in Giappone e che intendo continuare a raccontare in altri articoli che usciranno sulla rivista!

Di seguito un estratto dell’articolo.


Il bagliore che non svanisce

Fotografia e memoria del trauma nucleare in Giappone, 80 anni dopo.

In Europa, la Seconda guerra mondiale terminò l’8 maggio 1945 con la resa della Germania, ma nel Pacifico il conflitto proseguì in modo sanguinoso. Il Giappone, infatti, non contemplava la sconfitta e si preparava a una resistenza a oltranza contro gli attacchi degli americani.

Il 16 luglio 1945, con l’esito positivo del test Trinity, condotto nel deserto del New Mexico nell’ambito del Progetto Manhattan, gli Stati Uniti divennero i primi possessori dell’arma atomica funzionante. In breve tempo, questa nuova bomba fu considerata lo strumento con cui accelerare la conclusione del conflitto: avrebbe dovuto causare una tale distruzione da spezzare anche l’orgoglio giapponese e costringere il paese alla resa.

Il 6 agosto, alle ore 8.15, la bomba all’uranio Little Boy venne sganciata su Hiroshima (l’esplosione avvenne a un’altezza di circa 580 metri dal suolo) provocando la morte immediata di decine di migliaia di persone — il bilancio totale delle vittime, incluse quelle decedute successivamente per ustioni e radiazioni, è stimato in 140.000. Il 9 agosto, alle ore 11.02, la bomba al plutonio Fat Man colpì Nagasaki, causando complessivamente circa 70-80.000 morti.

Neppure dopo queste ecatombi i vertici militari giapponesi accettarono la sconfitta. Si rese quindi necessario l’intervento personale dell’imperatore Hirohito che — rompendo con la tradizione che lo voleva figura sacra e distante — si rivolse per la prima volta direttamente alla nazione, pronunciando il 15 agosto 1945 un discorso radiofonico per annunciare la cessazione delle ostilità e salvare il Giappone dalla completa distruzione. Il 2 settembre 1945, infine, venne firmato l’atto di resa a bordo della nave da guerra USS Missouri, nella baia di Tokyo.

Il trauma atomico del 1945 segnò profondamente l’identità culturale del Giappone e si riflesse con forza nella sua produzione artistica, dando origine a una lunga e dolorosa elaborazione collettiva. L’esperienza apocalittica di Hiroshima e Nagasaki, unita allo shock per la resa e la fine dell’imperialismo, generò un senso diffuso di lutto, vergogna e riflessione esistenziale, che si tradusse in una ricerca di nuove forme espressive capaci di affrontare l’irrappresentabile e di dare voce all’angoscia di un’intera nazione. […]


Ulisse alla scoperta di Letizia Battaglia by Filippo Venturi

Qualche giorno fa ho portato mio figlio Ulisse alla visita guidata per bambini — condotta dalla sempre bravissima Lisa Rodi — della mostra “Letizia Battaglia. L'opera 1970-2020” ai Musei di San Domenico, a Forlì.

Conoscevo già bene il lavoro immenso di Letizia, ma questa visita mi ha permesso di rivederlo con calma e scoprire nuovi dettagli e aneddoti.

Al primo piano, comprensibilmente, la visita guidata ha saltato la sala dedicata alle stragi di mafia dove io, invece, mi ci sono soffermato a lungo.

Come detto, conoscevo già queste fotografie ma, entrando nella sala, quando mi è apparsa la stampa grande del giudice Giovanni Falcone ai funerali del generale Dalla Chiesa, vittima della mafia nel 1982, e conoscendo anche il destino solitario che lo attenderà nei dieci anni successivi, fino al suo assassinio, ho avuto una sorta di sindrome di Stendhal e gli occhi mi si sono riempiti di lacrime.

Ho rivisto i cadaveri delle vittime, le macchine coi vetri in frantumi, i parenti disperati e tutto il turbinio di voci e grida — potevo sentirle, in qualche modo — e questo era davvero insopportabile. Quando poi ho letto il testo che presentava le opere esposte nella sala, ho potuto comprendere a fondo la sua profonda stanchezza nel fotografare queste situazioni, senza vedere una reazione da parte dei cittadini e delle autorità.

Dopo essermi ripreso, mi sono riunito al gruppo di bambini che, intanto, stava osservando una delle sale successive, con soggetti più leggeri, dove c’erano anche le fotografie di Letizia a dei bambini che giocano con delle pistole giocattolo ricevute in dono dai genitori, nel Giorno dei Morti.

Sono arrivato giusto in tempo per sentire Ulisse fare una delle sue tipiche osservazioni, da bambino, a volte fuori tema ma allo stesso tempo perfettamente in tema: “Io è tutta la vita che mi chiedo perché fanno i fucili e le pistole se poi non le usano bene”.

Ho provato una certa soddisfazione e consolazione.

Nell’ultima sala, la mia attenzione è andata al potente ritratto che Letizia Battaglia ha fatto a Rosaria Costa — la vedova dell’agente di scorta Vito Schifani, ucciso nella strage di Capaci del 23 maggio 1992 insieme a Giovanni Falcone, alla moglie e agli altri agenti — e si è ripetuto quello strano fenomeno in cui potevo sentire le fotografie parlare, ma in questo caso ho udito le parole del suo indimenticabile intervento in chiesa, al funerale del marito.

Ulisse ha invece notato la foto di una madre sulla spiaggia, abbracciata alla figlia, con didascalia “Olimpia a Mondello” e mi ha confidato che gli piacerebbe una foto così, abbracciato alla mamma.

Butoh, a japanese dance by Filippo Venturi

Some photos from my reportage on butoh dance, which is part of the project “The nails that sticks out gets hammered down”.

Butoh dancer Kohei Wakaba during the costume-dressing for the performance titled “Those Who Ain’t Damn Nobody,” staged together with fellow butoh dancer Mana Kawamura.



Butoh dance was born in Japan in the late 1950s as a form of aesthetic and spiritual rebellion against the wounds of the postwar period, Western influence, and the pressures of a society built on order, conformity, and productivity.

Created by choreographer Tatsumi Hijikata and dancer Kazuo Ōno, it transforms the body into a instrument of protest and revelation.

Bodies painted white, slow or convulsive movements, grotesque and distorted gestures stage pain, metamorphosis, and the individual’s resistance.

Also called the “dance of darkness”, Butoh explores the unspeakable: atomic memory, social repression, and the deep tensions between harmony and suffering that run through the soul of contemporary Japan.

«The moon is invisible during the day and shines brightly at night. It takes night to make the moon shine. It takes ugliness to make the public reflect on beauty.»

«I believe that the role of Butoh is to resist defeat, on the ash-covered ground, next to the fragments of intercontinental ballistic missiles, without shouting against war or calling for peace, but simply standing silently, painted white, amid the ashes.»

— Kohei Wakaba

Cosa resta dell'Arte - Intervista per In Magazine by Filippo Venturi

Su In Magazine Forlì-Cesena è uscito un interessante articolo di Roberta Invidia in cui intervista il sottoscritto, Francesca Leoni e Davide Mastrangelo (direttori artistici del Festival Ibrida) su come sta evolvendo l'arte dall'arrivo dell'intelligenza artificiale :)


Cosa succede all’arte, e al ruolo dell’autore, quando l’intelligenza artificiale sembra saper fare tutto? Da questa domanda siamo partiti per interrogare chi, nella fotografia e nell’arte, ha già fatto i conti con questa nuova tecnologia. Nel dialogo tra Filippo Venturi – fotografo cesenate pluripremiato per i suoi reportage d’attualità – e Francesca Leoni e Davide Mastrangelo – ideatori e direttori artistici di Ibrida Festival che porta a Forlì la video art e le performance multimediali –, emerge che, paradossalmente, più la tecnologia diventa autonoma, più diventa necessario sapere di chi è la paternità di un pensiero, di un’opera. Un nuovo spazio di autenticità da cui ripartire.

“L’intelligenza artificiale mi ha incuriosito da subito,” dice Filippo Venturi che è laureato in Scienze dell’Informazione a Bologna. “Ho cominciato a sperimentare nel 2023 e poi mi sono appassionato a Midjourney: mi incuriosiva il modo in cui le immagini generate dal software potevano imitare la fotografia, anche se in modo ancora approssimativo.” Da quell’esperimento è nato Broken Mirror, un progetto che “ri-racconta” il suo reportage fotografico sulla Corea del Nord. [...]

L’articolo integrale si può leggere gratuitamente online, a questo link:
https://www.inmagazineromagna.it/forli-in-magazine-04-25/

Nota dell'Autore by Filippo Venturi

Una immagine dal mio lavoro “Handbook of escape”, generata con l’IA /// An image from my work “Handbook of Escape”, generated with AI.


Nota dell’autore

Ho scelto di inserire questa Nota per chiarire come utilizzo l’intelligenza artificiale (IA) nei miei testi. Così come auspico trasparenza per le immagini generate con IA (soprattutto quando imitano la fotografia, in particolare in questa fase storica), la ritengo importante anche nella scrittura. Mi piacerebbe che indicazioni di questo tipo comparissero più spesso anche nei giornali e nelle altre fonti che consulto, magari accompagnate da dettagli specifici nel caso di un uso più esteso o diversificato di questa tecnologia.

Nei miei articoli utilizzo strumenti basati sull’intelligenza artificiale come assistenti editoriali, ma le idee, le interpretazioni e le connessioni concettuali sono interamente umane e frutto della mia ricerca personale.

Impiego l’IA nella fase di revisione della bozza per individuare eventuali errori grammaticali, refusi o imprecisioni concettuali, verificare la correttezza di date e riferimenti, valutare la chiarezza del testo per un pubblico che potrebbe non conoscere i temi trattati (sigle, acronimi, termini tecnici) e ridurre le ripetizioni.

Valuto e verifico sempre ogni suggerimento dell’IA, consapevole che in alcuni casi può generare errori o “allucinazioni”, cioè dati inventati o distorti. Nessuna modifica proposta viene applicata automaticamente.

Non la utilizzo per generare contenuti originali, elaborare tesi o formulare giudizi. Ogni argomento, esempio e analisi proviene dal mio lavoro, dalla mia esperienza diretta o da fonti verificabili.

Credo che il ruolo dell’autore oggi non sia quello di escludere la tecnologia, ma di governarla in modo consapevole e trasparente.

È importante aggiornare o modificare la Nota in funzione dell’uso effettivo dell’IA, così che resti uno strumento di trasparenza autentica e non una formula di rito.


Author’s Note

I chose to include this note to clarify the way in which I use artificial intelligence (AI) in my writing. Just as I advocate for transparency in AI-generated images (especially when they imitate photography), I believe it is equally important in written work. I would like to see such statements appear more frequently in newspapers and other sources I consult — ideally accompanied by specific details when this technology is used more extensively or in diverse ways.

In my articles, I use AI tools as editorial assistants, but the ideas, interpretations, and conceptual connections are entirely human and the result of my own research.

I employ AI during the draft revision phase to identify possible grammatical errors, typos, or conceptual inaccuracies; to check the accuracy of dates and references; to assess the clarity of the text for readers who may not be familiar with the topics discussed (such as acronyms, abbreviations, or technical terms); and to reduce repetitions.

I carefully review and verify all AI suggestions, aware that in some cases it may produce errors or so-called “hallucinations,” — invented or distorted information. No proposed change is ever applied automatically.

I do not use AI to generate original content, develop theses, or formulate judgments. Every topic, example, and analysis originates from my own work, direct experience, or verifiable sources.

I believe the author’s role today is not to exclude technology, but to govern it consciously and transparently.

It is important to update or modify this note according to the actual use of AI, so that it remains a genuine instrument of transparency rather than a mere formality.