Ciao Filippo, prima di tutto intendo ringraziarti per la tua disponibilità e complimentarmi ancora per il tuo lavoro, con particolare riferimento ai progetti coreani, sui quali vorrei concentrarmi. La fotografia di reportage non è sicuramente semplice, essendo il rischio di cadere nel banale sempre presente, ma tu sei riuscito a cogliere e trasmettere, in due progetti distinti, i lati più identificativi e peculiari di culture che, nonostante la vicinanza territoriale e un passato profondamente intrecciato, si trovano quasi agli antipodi. Una presunta utopia in contrasto con una distopia alla 1984 di Orwell.
Prima ancora di affrontare singolarmente i due progetti, assumendo altresì una visione d’insieme, mi piacerebbe chiederti se c’è stato qualcosa in particolare che ti ha spinto a concentrarti sulla penisola coreana.
Sono una persona molto curiosa e sono sempre alla ricerca di temi poco raccontati e storie originali da approfondire fotograficamente. Ho diverse fonti, fra giornali, siti internet, social network e così via, che consulto in cerca di ispirazione; raramente l’idea arriva come un fulmine a ciel sereno, più spesso invece la mia mente raccoglie inconsciamente elementi relativi ad un certo argomento fino a quando non maturo l’idea di lavorarci sopra e così è stato per la Corea del Sud.
Inizialmente ho deciso di approfondire esclusivamente questo Paese di cui si parlava poco (spesso era la Corea del Nord a rubare la scena internazionale). Molti fra i miei amici e conoscenti con cui ne parlavo non avevano idea di che tipo di Paese fosse.
Studiandolo ho scoperto che si trattava di un Paese molto interessante e futuristico (non solo a livello visivo) in cui certe tendenze e fenomeni sono talmente estremizzati da rivelare un possibile futuro dell’intero pianeta.
Per raccontare la Corea del Sud ho scelto di focalizzarmi sui giovani, sui quali pesano tutte le speranze del Paese.
Più in dettaglio: nel 2014 ho deciso di realizzare il progetto e, dopo un anno di studi, approfondimenti e ricerca di contatti sul posto, mi sono recato nel Paese nella primavera 2015.
Una volta rientrato in Italia, pensando ai progetti futuri, è stato naturale pensare di completare il racconto della Penisola coreana, pienamente consapevole che sarebbe stato difficile anche solo varcare il confine nord.
Entrambi i progetti sembrano ruotare, come è possibile cogliere leggendo le rispettive introduzioni sul tuo sito, intorno a quelli che potrei definire “estremismi”: una forte standardizzazione sociale, guidata da canoni estetici e ambizioni personali esagerate, con riferimento alla Corea del Sud e, se guardiamo alla Corea del Nord, la totale devozione ad un regime totalitarista imperniato su una dinastia di dittatori. Estremismi che portano, da un lato, ad una crescita economica forsennata e, dall’altro, ad uno sviluppo economico e sociale strettamente legato – per strapparci un sorriso – all’umore mattutino di un giovane dittatore.
Cosa ti ha stupito di più dei due paesi? In che termini i due viaggi hanno influito sulla tua crescita personale e, perché no, professionale?
Sono rimasto molto colpito dalla forte influenza che i due Paesi hanno sulla vita dei propri giovani, pur con tutte le differenze politiche, sociali e culturali che li distinguono. E notevole è la risposta devota dei giovani alle priorità a cui vengono chiamati per il bene del Paese, anteponendole spesso ai propri diritti e al proprio benessere.
Grazie a questi due progetti sono maturato molto nella parte organizzativa dei miei lavori, che ora supera abbondantemente il tempo dedicato al gesto di fotografare. Inoltre ho sviluppato un’esperienza nel rapportarmi con culture diverse; nel caso della Corea del Nord ho dovuto anche cavarmela in situazioni di estrema sorveglianza, censura e isolamento forzato dal mio Paese e dai miei cari.
A livello professionale ho avuto un riscontro molto positivo perché penso di aver intuito al momento giusto che la Penisola coreana sarebbe stata al centro dell’attenzione in questi anni e sono soddisfatto del lavoro che vi ho svolto.
Come dicevo, da un lato la Corea del Sud era, ed è, un Paese che ritengo trascurato fotograficamente, dall’altro lato la Corea del Nord è un Paese dove accedere e lavorare con visto giornalistico è molto arduo. In sostanza ho ottenuto il mio scopo, cioè raccontare bene qualcosa che è poco raccontato.
Escludendo qualche scatto ambientale, con il quale aiuti lo spettatore ad immergersi nella storia, entrambi i progetti, ma ciò accade anche in “In Oblivion”, sono caratterizzati da una forte presenza umana, con soggetti al centro dell’immagine.
C’è un motivo particolare alla base di questo approccio alla fotografia di reportage?
Agli inizi, quando studiavo fotografia e sognavo di lavorarci, ero restio a fotografare le persone perché è un processo più complesso rispetto al realizzare immagini di luoghi, oggetti o individui ignari. Col tempo ho superato la timidezza iniziale, ho scoperto che mi piace fotografare le persone con ritratti ambientati e che sono fondamentali nei miei lavori. Anche la scelta delle tematiche è condizionata dal legame che hanno con l’uomo.
Va anche detto che, spesso, parallelamente al lavoro fotografico svolgo un lavoro giornalistico, ricorrendo anche alle interviste che sono un ulteriore snodo per approfondire l’argomento che tratto (oltre a facilitare la pubblicazione sulle riviste).
Ricollegandomi alla domanda precedente, ho notato che i soggetti posano per te. Non si parla di scatti rubati o ritratti di scene di vita quotidiana. Partendo dal presupposto di una cultura estremamente diversa dalla nostra e tenendo conto anche del particolare rapporto che possono avere con il mondo “esterno”, in che modo ti sei relazionato con i nordcoreani? Erano ben disposti nei confronti di un fotografo straniero?
Sono convinto che i ritratti, in lavori dove si cerca di svelare le caratteristiche di una fetta di popolazione, siano fondamentali, soprattutto se si riesce a superare l’iniziale fase di imbarazzo del soggetto che intendo fotografare.
Lascio piena libertà alle persone che ritraggo e, se aspetto il tempo giusto, spesso mi offrono posture, sguardi e dettagli che raccontano qualcosa che va oltre il singolo individuo.
L’unico accorgimento che prendo è quello di dirgli cosa non fare – cioè sorridere – lasciando quindi la libertà di assumere qualunque altra espressione.
Il sorriso è una reazione di difesa spontanea che si assume in situazioni imbarazzanti o dove non si è a proprio agio. Col passare dei secondi o dei minuti, il soggetto assume una espressione più naturale, che ne definisce il carattere, ma anche l’influenza della società su di lui.
Con i nordcoreani il rapporto è stato molto difficoltoso perché non potevo comunicare direttamente (in pochi conoscono l’inglese) e, per motivi di “sicurezza”, ero sempre costretto a usare uno dei tre controllori che mi seguivano come tramite.
Molti nord coreani si sono rifiutati di posare, altri lo hanno fatto quasi si sentissero obbligati e qualcuno s’è reso disponibile, pur con una certa diffidenza.
In una tua intervista hai raccontato che l’ottenimento del visto per la Corea del Nord ha comportato notevoli difficoltà, tra cui la stesura di una minuziosa relazione sulle tue intenzioni fotografiche e la necessità di trovare un contatto che potesse garantire per te.
Le difficoltà attraversate e le molteplici richieste da parte delle autorità nordcoreane, permeate di dubbi nei tuoi confronti, non hanno influito sulla tua voglia di partire? Hai temuto per la tua sicurezza una volta arrivato?
Uno dei miei difetti e al tempo stesso pregi è che quando mi metto in testa una idea, vado fino in fondo. Nei mesi trascorsi ad attendere notizie ero pessimista sull’esito perché c’erano veramente tante cose che dovevano incastrarsi nel modo giusto. Man mano che ogni tassello finiva al proprio posto, la persona che mi stava aiutando ha iniziato a istruirmi su tutti i rischi che avrei corso (basti dire, per fare un esempio, che nelle stanze di albergo dove avrei alloggiato c’erano microfoni nascosti) e su quali accorgimenti prendere per ridurre al minimo tali rischi. Quando era praticamente tutto pronto, ho iniziato a domandarmi se ero pienamente consapevole di quello che stavo facendo, era la mia prima esperienza in un regime e iniziavo proprio da quello più chiuso e controllato al mondo!
La possibilità di lavorare in una condizione così difficile però mi ha anche caricato notevolmente, al punto di poter dire che nei miei lavori futuri spero di complicarmi ancora la vita in questo modo.
In che modo ti sei preparato ai due viaggi? Sei partito con una ferrea tabella di marcia e degli obiettivi prestabiliti o ti sei lasciato ispirare?
Entrambi i lavori hanno richiesto circa un anno di preparazione ciascuno, per studiare, ricercare contatti e farmi una idea precisa di cosa raccontare (nel caso della Corea del Nord vanno aggiunti diversi mesi per l’ottenimento dei documenti e dei permessi).
Avevo una tabella di marcia, non ferrea però, perché mi lasciavo portare fuori strada volentieri dal caso, quando fiutavo situazioni e imprevisti interessanti.
Nei miei lavori cerco di far convivere scatti ragionati e scatti “trovati”; questi ultimi sono spesso il condimento che rende tutto più saporito, ma lavorare cercando solo questo tipo di immagini spesso non ti fa raccogliere tutti i pezzi del puzzle che vuoi comporre.
Come tu stesso hai detto in precedenza, non c’è una storia romantica di macchine fotografiche regalate nella tua infanzia. Cosa ti ha spinto a diventare un fotografo? C’è stato un evento in particolare che ti ha spinto ad approfondire quest’arte o è stata una crescita graduale dettata da una semplice curiosità?
Quando ero molto giovane adoravo scrivere. Avevo anche iniziato a ottenere piccole pubblicazioni e soddisfazioni, ma quando ho scoperto la macchina fotografica e la possibilità di raccontare con quel mezzo sono cambiate completamente le mie priorità e ho capito di aver trovato la mia strada. A volte mi domando dove sarei oggi se avessi dedicato tutto me stesso alla scrittura come ho fatto con la fotografia, ma giungo sempre alla conclusione: sarebbe stata una via avventurosa, probabilmente appagante e stimolante, ma non quella giusta per me.
Come ultima domanda vorrei riproporne una che abbiamo già fatto ad un altro fotografo: cosa ne pensi della ricerca spasmodica del Like e dell’apprezzamento sui Social?
Come in tutte le cose, è necessario trovare un equilibrio, in questo caso fra l’essere coerenti con se stessi e il voler cercare l’approvazione continua, che rischia di diventare una dipendenza capace di deformare la nostra personalità.
Per un fotografo il rischio è di dedicarsi a cose semplici e universalmente riconosciute come belle, perdendo però di vista i propri interessi e la propria voce. Quella si che è unica, sempre.
In generale, quando uso i Social, cerco di tenermi alla larga dai cliché e pubblico un pensiero o una fotografia o un link (spesso appunti per me stesso) quando ritengo di avere qualcosa di veramente interessante da condividere.
Penso che siano un mezzo fondamentale per promuoversi, senza però diventare assillanti o pesanti. Dato che uso il mio account sia per la vita personale e sia per motivi commerciali, cerco di amalgamare il tutto in modo piacevole per chi mi segue.
Intervista di Nicholas Rusconi
Questo è il link all'articolo originale: https://ri-flex.com/intervista-a-filippo-venturi