Diary

Diario nord coreano by Filippo Venturi

Diario nord coreano
(2017)

Una versione di questo testo, ridotta a circa 11 mila battute, è uscita qualche anno fa nella rivista Il Reportage. Questa è invece la versione integrale di circa 27 mila battute. Non si tratta di un diario esauriente di quel viaggio, ma è l’insieme di alcune note e alcune vicende che ho registrato mentalmente. Con me avevo anche un quaderno che ho usato per annotarmi alcune informazioni innocue, ma nel quale non sarebbe stato saggio scrivere pensieri che sarebbero potuti essere letti dalle autorità nord coreane e causarmi complicazioni prima del rientro in Italia.

È un pomeriggio di marzo quando ricevo l'attesa notizia che le autorità nord-coreane hanno approvato il progetto che intendo realizzare nel loro paese. Mi era stato richiesto di preparare una minuziosa relazione, che è stata da loro letta, vagliata e giudicata. Ora posso finalmente dedicarmi ai preparativi del viaggio.

Realizzare un lavoro in Corea del Nord è il mio pallino fisso da quasi due anni, da quando cioè ho svolto quello sulla Corea del Sud. A fotografi e giornalisti non è consentito entrare nel paese col visto turistico: chi lo ha fatto, mentendo, ha corso un grosso rischio, e gli è toccato accontentarsi del tour guidato decretato per i turisti. Per questo ho cercato, per mesi, un contatto che mi aiutasse nei rapporti con le autorità e, garantendo per me, mi facesse ottenere l’agognato visto da giornalista. Per sostenere le spese che affronterò nel visitare il paese, ho coinvolto la rivista Vanity Fair e con me partirà anche una loro giornalista, Imma Vitelli.

È a questo punto che il mio contatto inizia a recitarci, quasi quotidianamente, per telefono ed email, il mantra delle regole non scritte che dovremo rispettare per poter svolgere il nostro lavoro e tornare a casa senza intoppi: in quanto inviati di un giornale saremo considerati sorvegliati speciali. Io e Imma saremo aiutati durante il nostro soggiorno da quattro guide – si potrebbe (anche) dire "scortati da quattro controllori" – ossia un autista, un fotografo incaricato di controllarmi, censurarmi e persino di fotografarmi per documentare ai suoi superiori le mie attività, una guida che parla italiano e un'altra che parla inglese e spagnolo. Non potremo uscire dall'albergo senza di loro; verranno a prenderci ogni mattina e ci riporteranno alla sera, accompagnandoci nei luoghi che abbiamo indicato nella relazione e deliziandoci con proposte integrative: è loro cura assicurarsi che non ci sfugga che magnifico paese sia la Corea del Nord.

In hotel ci saranno telecamere ovunque. Saranno sicuramente negli spazi comuni e negli ascensori ma dovremo essere prudenti anche all'interno delle nostre camere, dove ci ascolteranno dei microfoni. Dovremo assolutamente evitare di parlare del Supremo Leader e soprattutto di farci ironia o di criticarlo. Meglio parlare poco e in modo chiaro per evitare equivoci: i coreani vedono ogni occidentale come una possibile spia.

Dovremo dimostrare costantemente il nostro rispetto verso i Leader, partendo dal primo giorno, quando dovremo donare spontaneamente un mazzo di fiori al monumento dei Leader Kim Il Sung e Kim Jong-il – rispettivamente nonno e padre dell'attuale Leader Kim Jong-un. La procedura è ben definita: prima appoggeremo le nostre borse a terra, poi ci inchineremo a 90 gradi esatti. Non dovremo rialzarci per almeno cinque secondi, mantenendo uno sguardo solenne.

La partenza è prevista in maggio, da Roma. Prenderemo un volo per Pechino, poi uno per Yantai e infine per Dandong – città cinese al confine con la Corea del Nord – per un totale di circa venti ore tra voli e attese. A Dandong passeremo due notti e una giornata intera, esplorando il confine dal lato cinese, lungo il fiume Yalu, per poi prendere nel secondo giorno il treno, al mattino presto, che in sei ore raggiungerà Pyongyang attraversando le campagne coreane.

Il treno che ci porta a Pyongyang, appena varcato il confine, viene fatto fermare in territorio coreano, dove decine di soldati salgono a bordo, entrando in ogni scompartimento per perquisire e interrogare i viaggiatori. A bordo siamo rari esemplari di occidentali e attiriamo sguardi e curiosità. Dividiamo lo scompartimento con un ragazzo cinese e una coppia di mezza età composta da un cinese e una coreana. Quando un soldato arriva nel nostro scompartimento, ci invita a uscire in corridoio per poi chiamarci dentro uno alla volta per controllare il contenuto dei badagli e procedere con l'interrogatorio. Il contatto ci aveva preparato anche a questo.

Arriva il mio turno. Devo compilare un questionario dove dichiaro che sono un fotografo e cosa intendo fare in Corea del Nord. Elenco il materiale in mio possesso, in particolare l'attrezzatura fotografica: 3 fotocamere, 4 obiettivi, 1 cavalletto, 1 smartphone e una infinità di batterie e memorie in grado di garantirmi autosufficienza per le due settimane di viaggio: temendo i blackout elettrici, frequenti in, ho voluto essere previdente. Su consiglio, non ho preso con me il computer portatile che avrebbe reso ancora più complessi i controlli e aumentato la perdita di tempo. Nel questionario mi viene chiesto se ho con me la Bibbia, pongo il segno su No. Mentre sono indaffarato ad aprire ogni cerniera e ogni tasca dei miei bagagli per mostrarne il contenuto, il militare mi interrompe chiedendomi in un inglese minimale «No Bibbia?», «No». Sto riordinando le mie cose nelle rispettive tasche, quando mi domanda «Tre fotocamere?», «Sì». «No Bibbia?», «No». «Quattro fotocamere?», «No, tre». «No Bibbia?», «No». «Quanti cavalletti?», «Uno», lo tocca, «È questo?», «Sì». Rispondo sempre guardando negli occhi il militare. La cosa va avanti per un po': l'interrogatorio verte sul ripetere le domande con frequenza e vedere se cambio risposta, cadendo in contraddizione. Dal momento che non sto mentendo, risulta semplice restare coerente. Mi domando se vorrà vedere le fotografie che ho scattato, quelle fatte da Dandong verso la costa coreana, saranno un problema. Poi mi ricordo di altri scatti fatti in stazione, dove i pochi viaggiatori coreani si riconoscono dai cinesi per i vestiti e le borse di bassa qualità. Più che borse sono scatole di cartone e sacchi insolitamente grandi avvolti nelle plastiche, probabilmente non contengono oggetti personali, ma prodotti destinati al mercato nero che ha preso piede recentemente in Corea e che è tollerato dal Governo. Il militare conclude la sua ispezione e passa oltre.

Quando il treno riparte, il clima è più disteso in tutto lo scompartimento. Il ragazzo cinese si apre, raccontandoci di essere un imprenditore: si occupa di abbigliamento. La produzione però viene affidata a lavoratori nord-coreani perché guadagnano ancora meno dei cinesi e quindi per lui rappresentano un risparmio sulla manodopera.

Mi aspettavo dei controlli costanti durante il viaggio in treno, invece sono libero di raccogliere materiale fotografico e video delle campagne, delle risaie, delle piantagioni di soia che ricoprono il paesaggio fino all'orizzonte, dei villaggi quasi medievali e dei rari coreani che guardano il treno passare, seduti ai lati della ferrovia o mentre camminano lungo strade spesso non asfaltate. Il tempo grigio e piovoso, gli edifici fatiscenti e gli sporadici gruppi di persone coperti da impermeabili e ombrelli colorati, coordinati da pochi militari, privano dell'innocenza il paesaggio di campagna. Di tanto in tanto qualche coreano si gira e sorride al treno, qualcuno sembra notare proprio me.

La stazione di Pyongyang è essenziale e sovradimensionata per le persone che contiene; scoprirò in seguito che è caratteristica comune a tutti i luoghi che visiterò. Le guide ci accolgono con sorrisi e con fare garbato; non dubito che possano essere brave persone con la sfortuna di crescere in uno dei paesi meno liberi al mondo. Al tempo stesso ricordo le parole del contatto: «Probabilmente si creerà un rapporto socievole e prenderemo confidenza, ma non dovrete mai abbassare la guardia ed esporvi, pensando di essere fra amici».

Viaggiamo stipati in un antico furgoncino giapponese; se su altri aspetti hanno una cura maniacale nell'esibire ordine e sfarzo, sui mezzi di trasporto vanno al risparmio. La prima tappa è il Yanggakdo Hotel: un albergo di 46 piani, spesso utilizzato per ospitare turisti e giornalisti, il cui nome significa “Corna di pecora” per via della forma dell’isola su cui è costruito. Vista l'ubicazione, qualche visitatore lo ha soprannominato Alcatraz.

Facciamo il check-in, lasciamo i bagagli, una rinfrescata in bagno, poi scendiamo di nuovo nella hall dove ci attendono le guide per portarci a cena. Il sole è ormai tramontato e noi sfrecciamo nel buio delle strade – l'elettricità è preziosa qui –, asfaltate ma corrose. L'autista guida sicuro, si alterna fra le quattro corsie di continuo, facendo lo slalom fra le buche. Non c'è traffico – e non lo troveremo mai –, in compenso le strade brulicano di pedoni intenti ad attraversare. Qui la precedenza è sempre data ai veicoli a motore e i semafori sono rari, una scelta forse dettata dalla volontà di risparmiare carburante, un bene pregiato vista la difficoltà nel reperire petrolio e derivati con l'embargo internazionale che vige da oltre 10 anni (le sanzioni furono imposte nel 2006 da USA, ONU e UE dopo il primo test nucleare). In queste prime ore socializziamo soprattutto con le guide Kim (che parla italiano) e Choe (inglese e spagnolo). Sebbene l'italiano di Kim sia sgangherato, ci chiede di parlarlo così da consentirgli di allenarsi; Kim è una guida importante per la KITC, l'agenzia turistica governativa, perché in tutto il paese soltanto 15 persone hanno studiato e parlano italiano. «Kim, a cosa servono le strisce pedonali se non facciamo mai passare i pedoni?» «Quando ci sono le strisce le automobili rallentano, ma non si fermano».

Ceniamo in una struttura che, al piano terra, è adibita a negozio di abbigliamento e al primo piano è occupata da un ristorante; scopriremo che in Corea è una cosa frequente. Il ristorante è pulito e curato ma l'abbondanza di colori, stili e ornamenti lo rende kitsch. Quattro cameriere si prendono cura del nostro tavolo da sei, considerando che il resto del locale è vuoto (circostanza che si ripeterà spesso durante il viaggio). Il clima è disteso, iniziamo a fare conoscenza, il cibo è buono e si basa su riso, frittata, kimchi (cavolo fermentato) e altre verdure. Di tanto in tanto l'occhio mi cade su una parete del ristorante ricoperta da una proiezione di orchestre e marce militari che celebrano la grandezza del paese.

Kim ci racconta che gli Stati Uniti minacciano sempre il suo paese, ma loro adesso hanno tutto per poter rispondere alla guerra, alludendo alla bomba atomica. Sembra un bambino contento dei propri giocattoli. Sottolineerà spesso, durante il nostro soggiorno, che «Quando gli Stati Uniti pungiano, noi pungiamo più forte». Aggiunge poi che negli anni '50 gli USA hanno lanciato 300.000 bombe su Pyongyang, praticamente una bomba per ciascun abitante della città di quel periodo. Le tensioni fra Stati Uniti e Corea del Nord sono aumentate con la presidenza di Trump che, dopo ogni test missilistico coreano, usa sempre più spesso l'espressione "ogni opzione è sul tavolo", accarezzando quasi con piacere il termine "guerra".

In seguito scoprirò che tutti i pasti sono pianificati scrupolosamente: a volte ceneremo con le guide, altre volte io e la giornalista verremo lasciati da soli, mentre loro consumeranno il proprio pasto in una stanza adiacente. Forse per una genuina cortesia di lasciarci un po' di privacy o forse per registrare le nostre conversazioni quando penseremo di essere soli.

Kim, oltre all'italiano, ha studiato anche la storia del nostro paese, antichi romani compresi. Imma, per stuzzicarlo, gli domanda se sa chi era Giulio Cesare, «Sì», se sa che è stato un dittatore, «Sì» proprio come il tuo Leader, «No!». Si ribella all'accostamento perché in Corea si vota ogni 4 anni e Kim Jong-un è stato eletto con il 100% di voti. «Kim, è normale secondo te?», «Sì». «Se ci fosse un nord-coreano che non apprezzasse il Leader, cosa gli succederebbe?». Kim ci pensa un po'... «Chi è?». Non comprende che si tratta di un’ipotesi e si aspetta che gli venga rivelato il nome.

Il cellulare in Corea non funziona; non c'è campo e non c'è internet. Nel periodo che trascorreremo in Corea saremo completamente isolati dal mondo, con l'unica possibilità di mandare email dalla casella dell'albergo oppure chiamare da uno dei telefoni nella hall dell'albergo al costo di 2,50 euro al minuto, con la certezza di essere letti e ascoltati. Chiamo casa, ho promesso a Elisa, la mia compagna, che mi farò vivo ogni 24 ore circa; entrambi sappiamo che non siamo soli al telefono e quindi ci limitiamo a discorsi semplici dove confermo che va tutto bene, racconto della gentilezza delle guide e dei posti visti quel giorno. Lei vorrebbe darmi una notizia importante, ma è troppo personale per comunicarmela in quelle circostanze e troppo importante per non rischiare di distrarmi dal lavoro che dovrò svolgere. Non la menziona.

La stanza d'albergo, elegante e involontariamente vintage, con moquette e arredamento beige, è grande e pulita; si trova al 43° piano e da lì ho una bella vista sulla città che appare moderna e ricca, se fossimo negli anni '70; guardando meglio, i grattacieli color pastello sono sbiaditi e corrosi dalle intemperie. Nei corridoi che portano dall'ascensore alla stanza ho notato che la vista sugli altri lati mette in mostra cantieri o edifici da restaurare (come la logora sede della Biennale del Cinema).

Incuriosito dalla possibilità di essere sorvegliato anche in camera, mi guardo attorno alla ricerca di eventuali cavi o microfoni, che non scorgo. L'unico elemento sospetto è il comodino dalla forma cubica, senza cassetti, ma con tasti e manopole da radio sul lato anteriore. Guardando il lato posteriore del comodino, noto un numero eccessivo di cavi che si infila nel muro. Imma ed io, consci di non poter parlare liberamente, limiteremo le conversazioni in albergo a discorsi banali. Ci scambieremo a volte comunicazioni delicate scrivendole soltanto sul display del cellulare per poi cancellarle immediatamente.

Nel mio secondo giorno a Pyongyang, scendo al piano terra dell’albergo alle 7.30. Io e la collega non abbiamo pensato a darci un appuntamento per fare colazione e mi ritrovo da solo nel salone dove viene servita. Vengo fatto sedere in un tavolino distante dagli altri ospiti, una mezza dozzina in tutto. Yogurt, verdure tritate, caffè e frittata vengono servite in piattini da cameriere carine nei modi ma rigide nei gesti. Mi capiterà di vedere qualche occidentale nel momento della colazione, ma verremo sempre fatti sedere lontani e non ci sarà mai la volontà di cercarsi.

La seconda volta che scendo al piano terra, dopo un passaggio in camera per prendere con me la borsa fotografica, scorgo le nostre guide; hanno dei sorrisi insolitamente larghi, come se si fossero appena raccontati qualcosa di esilarante. Mentre mi vengono incontro il sorriso non accenna a diminuire. «Hai visto il canale internazionale in camera? – domanda Kim – abbiamo fatto un test missilistico, è andato bene!» racconta entusiasta. Mi complimento conciliante con loro, ma il mio pensiero va alla TV che avevo ignorato; scoprirò nelle notti seguenti che riceve Al Jazeera, che sarà il mio unico canale di informazione durante la permanenza. Per il resto della giornata mi domanderò se sia una notizia vera oppure una sorta di test per vedere la nostra reazione oppure una notizia diffusa solo in Corea. Soltanto alla sera Elisa mi confermerà al telefono, con una certa apprensione, che anche in Italia si è parlato di questo test.

Ci accorgeremo, col passare dei giorni, che le nostre guide hanno soltanto informazioni parziali sull'attualità: non sanno ad esempio che in Corea del Sud è appena stato eletto un nuovo Premier, Moon Jae-in o che in febbraio è stato assassinato, a Kuala Lampur, Kim Jong-nam, fratellastro del loro Leader. Prenderemo l'abitudine di chiedere ogni mattina a Kim qual è la notizia del giorno in Corea del Nord. Lui ci risponderà puntualmente consultando il proprio smartphone, con cui ha accesso ad un internet limitato a pochi siti governativi come quello del quotidiano "Rodong" (lavoro), dove può leggere le informazioni filtrate dalla propaganda.  Ne è conscio, ma lo considera un bene, perché «sono le informazioni giuste per la popolazione».

Il giorno seguente ci racconterà i dettagli del test missilistico riuscito, poi della festa organizzata dal Leader per l'esperimento andato a buon fine, successivamente del regalo offerto dal Leader agli scienziati che hanno reso possibile tutto questo e il giorno dopo ancora dei complimenti ricevuti dagli altri Leader asiatici. «Kim, non ci sono mai brutte notizie in Corea?», «A volte, ma provengono dall'estero».

Durante il nostro soggiorno visiteremo il Complesso della Scienza e Tecnologia, il Palazzo dei Bambini, scuole superiori, asili, biblioteche, parchi giochi e altri luoghi dove vengono formati i giovani nord-coreani, tema portante del mio progetto. I coreani sono orgogliosi di mostrarci la loro gioventù, dove persino bambini di pochi anni hanno una disciplina ferrea e una dedizione totale verso l'attività che svolgono, al punto da sembrare piccoli robot. Sono capaci di festeggiarci, mostrarci le aule e i loro strumenti e giochi e di intrattenerci con concerti impeccabili che, per durata e precisione di esecuzione, sembrano impossibili per la loro età.

Non ci faranno visitare nemmeno una delle trenta università presenti in città, nonostante fosse fra le nostre richieste. Ci porteranno a vedere i set cinematografici, meta che consideravamo molto importante visto il ruolo che il cinema ricopre nella propaganda, ma lo faranno in una giornata dove non c'è nessuno da intervistare e fotografare; soltanto set vuoti. Delusione profonda. Compro e sfoglio una guida al cinema nord-coreano in inglese, in un negozio di souvenir, leggo un po' di trame. Quando non si tratta di film ispirati alla vita di Kim Il-sung o di veri e propri film di guerra dove si combattono gli USA, i film raccontano storie di ordinaria quotidianità, dove magari un giovane scapestrato commette una serie di errori o mancanze di rispetto verso la famiglia, fino al giorno della maturazione, espressa simbolicamente con l'arruolamento nell'esercito per combattere gli americani.

Un giorno, mentre camminiamo per le vie di Pyongyang, mi accorgo che Kim e Choe chiacchierando rispettivamente con me e la collega, tenendo andature diverse, riescono a distanziarci di una decina di metri, ritenendoli sufficienti per avere dialoghi separati, ma in realtà posso comunque sentire a fatica le domande che Kim pone e le risposte che la giornalista fornisce: «Che tipo di rivista è Vanity Fair?», «Di cosa si occupa?», «è americana?», «Davvero la redazione italiana è indipendente da quella americana?»  e così via. Pochi minuti dopo le stesse domande vengono poste a me da Choe. Rispondo allo stesso modo, che è poi la verità, e la mia versione coincide con quella della giornalista. Le nostre guide ci chiedono quasi quotidianamente che tipo di articolo sarà il nostro; ci tengono molto che venga fuori una visione positiva perché la priorità del loro paese è incrementare il turismo (e l'arrivo di valuta straniera; ogni nostra tappa è seguita dalla visita a un negozio di souvenir dove sperano di farci comprare qualcosa).

Altrettanto spesso ci raccontano del loro sogno di riunificazione pacifica della penisola coreana in un unico paese guidato dal Leader Kim Jong-un. È un desiderio sincero e molto sentito, che mi fa tornare alla mente le interviste che feci ai giovani sud-coreani nel 2015. Nessuno di loro voleva la riunificazione perché non intendono rinunciare al benessere raggiunto e nemmeno vogliono che la crescita economica e tecnologica del paese venga rallentata dal farsi carico dei nord-coreani. Alcuni studi hanno stimato che la produttività del Nord raggiungerebbe un livello pari alla metà di quella del Sud solo dopo circa cinquant’anni.

Nei nostri spostamenti notiamo una moltitudine di militari che incontriamo a presidio dei monumenti, in giro per le strade o anche al lavoro nei cantieri. «Perché i militari svolgono lavori da operai, muratori e contadini?», chiedo, «Costruiscono il socialismo», sentenzia Kim. Aggiunge poi che il servizio militare, della durata da tre a cinque anni, è obbligatorio e che nelle università insegnano a tutti a sparare. Saperlo fare è un dovere dei coreani. Sono esentati i ragazzi che studiano lingue, tecnologia e musica. Per le donne non è obbligatorio ma, per chi scegliesse di farlo, la durata va dai diciotto ai trentasei mesi a seconda del settore scelto. Alcune fonti riportano che l’esercito nord-coreano è la quinta forza armata al mondo dopo Cina, USA, Russia e India. Se si tiene conto dei riservisti, l’esercito può arrivare a oltre sette milioni di militari su una popolazione complessiva di venticinque milioni.

Kim, studiando italiano, è stato esentato dal servizio militare: ho idea che non ci tenga a farlo anche se ce la racconta come una possibilità che sta valutando. Gli abitanti di Pyongyang sono una élite rispetto al resto del paese e all'interno della città c'è una casta ancor più ristretta che include poche migliaia di persone, fra le quali il nostro Kim, figlio di un avvocato e col desiderio di diventare funzionario di partito. Fotografare i militari è severamente vietato, penso che c'entri col fatto che svolgono lavori umili, ma mi adeguo senza problemi, non rientrando loro nel mio progetto. Non intendo provocare il fotografo che mi scorta, quasi sempre sorridente e cordiale, tranne in alcuni episodi: mi ha impedito di fotografare dei giovani che non avevano un portamento adatto alla buona immagine del Paese. Allontanandoli con decisione dal sottoscritto, li ha ammoniti con severità.

Durante il viaggio spiccano tre incontri in particolare: quello avvenuto a casa di un professore universitario, quello avvenuto con un Colonnello alla DMZ (zona demilitarizzata, il confine con la Corea del Sud) e quello avvenuto con un funzionario del partito nel bar del piano terra del Koryo Hotel.

Abbiamo aspettative molto alte dalla visita alla casa del Professore Ri Sungil, Presidente dell’Università di Ingegneria Elettronica. Il professore è uno dei ruoli più importanti nella società nord-coreana – persino più di giudici, avvocati e membri del Partito –, perché dovrà forgiare le menti di scienziati e ingegneri che lavoreranno allo sviluppo tecnologico e militare del paese.

Quando arriviamo nell'appartamento, situato in uno dei grattacieli del quartiere degli scienziati, scopriamo che il professore è al lavoro e non può incontrarci, ma possiamo parlare con la moglie e fotografarla. L’ennesimo bastone fra le ruote. Ci viene raccontato che la casa, di 200mq, è un regalo del Supremo Leader. Anche i mobili, i bicchieri e tutto il resto sono regali. Gli oggetti della vecchia casa sono rimasti là, non c’è stato alcun trasloco dato che appartiene tutto allo Stato. Nella vecchia casa non avevano il boiler per l'acqua calda. Le famiglie dei professori hanno dei benefit, come il saltare la fila quando fanno la spesa, ricevere annualmente un pacco di cibo e confezioni di acqua di sorgente, oltre alla possibilità di fare una vacanza di tre settimane al lago.

Alla DMZ incontriamo il Colonnello Jon, che ci racconta il suo punto di vista sulla Guerra di Corea e la divisione del Paese. Kim lo ascolta con estremo rispetto. Ricordo la visita fatta alla DMZ dal versante sud-coreano, ma qui a nord l'atmosfera è più pesante e surreale per via degli altoparlanti sud-coreani che trasmettono musica e a volte discorsi provocatori contro gli ideali dei nord-coreani. Chiediamo informazioni ad alcuni militari ma tutti affermano di non sentire bene e di non capire cosa viene detto (è difficile crederlo, più probabilmente non vogliono ripetere quelle frasi).

La mattina del penultimo giorno in Corea, nella hall del nostro albergo, avviene un incontro fortunato con un funzionario importante del partito che, informato da Kim della presenza di due giornalisti di Vanity Fair in visita nel paese, viene a presentarsi. Non ha molto tempo, ci dà appuntamento per la sera stessa nel lussuoso Koryo Hotel (dove alloggiano solitamente i pezzi grossi del Paese) dove ci concederà un’intervista. È una grande opportunità. Quando arriviamo al suo tavolo notiamo che è vestito elegante, parla inglese in modo spavaldo ed è brillante (come un attore consumato) con Imma, che è al centro delle sue attenzioni. È un nord-coreano diverso da tutti quelli incontrati nel viaggio perché ha libero accesso all'informazione, a internet, ha potuto viaggiare all'estero, persino in Italia, sa come va il mondo ed è consapevole del filtro che viene imposto alla popolazione.

I successivi trenta minuti, però, sono un corteggiamento insistente verso la giornalista, che mi fanno pensare all'ennesima delusione delle nostre aspettative. La collega però è esperta e sa quando dare corda e quando riportare la conversazione sui binari. Spinge il funzionario a iniziare l'intervista e, quando questo capisce che non può più rimandare, fa chiamare Kim per tradurre perché, da quel momento in poi, parlerà prudentemente soltanto coreano. Nell'ora successiva Kim si troverà a tradurre domande e risposte che contengono informazioni e notizie di cui era completamente all'oscuro: gli si aprirà un mondo. Quando a un certo punto gli altri vanno al bagno e rimane solo con me al tavolo, mi domanda con agitazione se sta traducendo bene, vuole ben figurare col funzionario perché sogna di diventarlo anche lui, in futuro. Taglio corto e lo rassicuro con generosità.

Fra le altre numerose mete del viaggio: la Metropolitana di Pyongyang – imponente e ricca di decori, pensata anche per essere un rifugio per la popolazione in caso di attacco nucleare –, l'Arco di Trionfo – 11 metri più alto di quello di Parigi, ci tengono a precisare –, il Monumento alla Fondazione del Partito, la Juche Tower, la Grand People's Study House, il Museo della Guerra e l'International Friendship Exibition, cioè un museo imponente di 70.000 mq che contiene gli 114.920 regali provenienti da 188 Paesi, in onore dei Leader nord-coreani; fra questi anche un’auto blindata e un vagone ferroviario blindato donati da Stalin.

Nel giorno della partenza, c'è la classica malinconia di chi sta per salutare degli amici; dopo il tempo passato assieme, è stato naturale sviluppare una simpatia, in particolare verso Choe e Kim, che a volte hanno ostacolato il nostro lavoro, obbedendo a ordini superiori, ma altre volte si sono dimostrati disponibili e si sono aperti con noi. Se ripenso a Kim e ai suoi 26 anni, sono convinto di averlo conosciuto nel momento migliore della sua vita – dal mio punto di vista – con un animo ancora aperto, nonostante tutto. Fra 10 o 20 anni alloggerà anche lui al Koryo Hotel, spavaldo e complice consapevole della propaganda.

È al momento dei controlli in aeroporto che si scopre se le autorità nord-coreane hanno deciso che puoi lasciare il paese o meno e, proprio per questo, siamo un po' ansiosi nonostante ci sembri di aver trovato il giusto equilibrio fra il sottostare alla loro volontà e lo svolgere il nostro lavoro. Mentre mi controllano le borse, un militare mi domanda la provenienza di due poster di propaganda coreana che ho nella tasca esterna dello zaino. Gli spiego che li ho comprati a Kaesong, città vicino al confine. Lui mi chiede lo scontrino, che non possiedo, probabilmente non mi è stato nemmeno lasciato. Per un attimo la mia mente estrae dal cilindro il nome Otto Warmbier, lo studente americano qui arrestato oltre un anno fa per il furto di un poster e che avrà un destino crudele nei mesi successivi. Il militare insiste nel chiedermi lo scontrino, gli rispondo che non ce l'ho. Osservo Imma andare oltre i controlli e sto pensando di avvisarla del mio fermo, quando il militare decide di lasciarmi andare…

Seguono alcune fotografie scattate durante il viaggio in treno da Dandong a Pyongyang.

Viaggio in Irlanda by Filippo Venturi

GIORNO 1 - Il primo volo di Ulisse

Avendo un volo notturno, la speranza era che avrebbe dormito buona parte delle 2 ore e 45 minuti di viaggio. Era, appunto.
Nei vari tentativi di accontentare la sua smania di muoversi e curiosare c'è stato il farlo camminare lungo il corridoio dell'aereo, ma dopo pochi secondi la passeggiata è diventata una rincorsa dove io vestivo i panni di Willy il Coyote.
Fra schiamazzi e gemiti di Ulisse, "ingiustamente" legato alla cintura di sicurezza, ogni tanto notavo la signora alla mia sinistra gettare occhiate disperate verso le file posteriori, in cerca di un sedile libero.
Nei momenti in cui Ulisse osservava dal finestrino si percepiva il suo desiderio di smontare le ali per esaminarle al millimetro. Magari per verificare "l'Effetto Venturi" (esiste davvero, per qualche bizzarro motivo me lo ricordo dai tempi della scuola).
Alla fine ha ceduto alla stanchezza, negli ultimi 10 minuti di volo, addormentandosi addosso a me e, grazie a questo momento di tenerezza, a farsi perdonare tutti i guai precedenti.
Già in Puglia qualche settimana fa e pure nella giornata di oggi, mi sono riconosciuto in quelle famiglie che osservavo da giovanissimo, un po' sgangherate e un po' imbarazzanti, per via delle difficoltà nello star dietro a tutto e dei bambini che testavano la pazienza dei genitori.
Che ti facevano pensare: "Io? Non sarò mai cosi!".
Oggi però so che ne vale la pena.

GIORNO 2 - Il verde di Irlanda

Appena sveglio, Ulisse ha finalmente potuto vedere per la prima volta il verde irlandese (l'arrivo in piena notte l'aveva impedito), soffermandosi a osservarlo ed emettendo piccoli gemiti euforici al passare di cani e altri animali.
Non so perché Elisa ha prenotato la stanza in un albergo per ricchi e attempati golfisti, devo però riconoscere che la luce e la vista della sala colazioni era notevole, molto rilassante.
Siamo andati a sud, nella Contea di Wicklow, facendo varie tappe ed escursioni, attraversando il Sally Gap e visitando il celebre sito monastico di Glendalough, luoghi che per atmosfere e colori rappresentano perfettamente l'Irlanda che amiamo (io ed Elisa siamo stati già in Irlanda prima di conoscerci e poi, assieme, in Irlanda del Nord e pure in Scozia, anche qui in cerca di zone selvagge, castelli, scogliere e pub).
In serata siamo arrivati a Kilkenny, passeggiando fra le sue vie medievali prima di tuffarci in una pinta di Guinness.

GIORNO 3 - Corse, castelli e tori incazzosi

Anche questa mattina è stata dura staccare Ulisse dalla finestra del nostro B&B.
La giornata è iniziata con la visita a Kilkenny, entrando nel castello, passeggiando lungo il "medieval mile", perdendosi nei viottoli e finendo dentro le riprese dell'Harry Potter irlandese (o qualcosa di simile).
Elisa mi dice di attendere con Ulisse perché deve fare una foto. Attendo. Poi scopro che anche noi eravamo parte della foto. Insomma sembro in posa ma non lo sono.
Una foto è di ieri, me l'ero dimenticata ma mi piaceva e l'ho messa oggi, quella dove Elisa e Ulisse mangiano in un bosco, tipo Hobbit.
Nel nostro girovagare finiamo alla Rock of Cashel che, per forma e ubicazione, esibisce una imponenza notevole sul visitatore in arrivo.
Ulisse corre nel giardino a perdifiato, fermandosi solo per indicarci i tanti corvi in volo. Cerco un posto da cui riprendere e incorniciare il castello, ma finisco nel territorio di un toro incazzoso. Scatto al volo e non attendo di scoprire se hanno imparato a scavalcare i muri.
Alla sera arriviamo a Kinsale, sul mare, ceniamo da Dino's, il re del fish and chips.
Nella passeggiata post-cena scopriamo che si tratta di un paese delizioso, ma l'illuminazione notturna è trascurata, un po' come in tutto il paese. A domani!

GIORNO 4 - Manine, bauli e Wild Atlantic Way

Il B&B aveva un tavolino abbastanza alto da battezzarlo "piano anti-Ulisse", dove appoggiare gli oggetti che per un motivo o per un altro dovevano essere salvaguardati.
In mattinata abbiamo visitato per bene Kinsale, un paesino sul mare che avevamo sottovalutato, ma che di giorno ci ha sorpreso per le sue vie e i suoi colori, al punto di sembrare il set di un film.
A Kinsale inizia la Wild Atlantic Way, che nei prossimi giorni percorreremo fin su nel Donegal.
Il momento clou della giornata è stato l'attraversamento del Ring of Bara e dell'Healy Pass, dove abbiamo trovato quel senso di selvaggio e isolamento che ci ha spinto a organizzare questo viaggio e che ricercheremo nei prossimi giorni.
Stiamo fotografando molto, preferendo però non pubblicare le fotografie più intime. Al rientro in Italia però le stamperemo tutte.
Ovviamente Ulisse non ricorderà nulla di questi viaggi, è troppo piccolo, ma la speranza è che possano seminare e nutrire in lui la curiosità di scoprire, la voglia di viaggiare e il rispetto verso culture diverse.
Mi procurerò un bauletto dove conserverò i miei lavori fotografici, i diari fotografici e scritti dei viaggi di famiglia e tutti quegli oggetti che potranno un giorno raccontargli o ricordargli chi siamo io ed Elisa, quali passioni ci hanno guidato nella vita e quanto lui sia importante per noi.

GIORNO 5 - Può piovere per sempre

Oggi vento e pioggia hanno sferzato il Ring of Kerry tutto il giorno, con brevi pause illusorie.
Le Kerry Cliffs hanno segnato il punto di massima sorpresa. Se la pioggia aveva concesso una breve tregua, il vento ha esibito i propri muscoli, estremizzato il senso di vertigine che si aveva nello sporgersi a vedere il mare infrangere sugli scogli 300 metri più in basso.
Da questo punto erano osservabili le Skelling Island, diventate famose perché nell'isola più grande (Skelling Michael) hanno girato il finale di Star Wars VIII.
Considerando le condizioni estreme di quella landa, potevamo quasi udire l'eco delle imprecazioni di Luke Skywalker dopo esservi recato a fare l'eremita.
Ulisse ha iniziato la giornata riprendendo i suoi test di gioco a nascondino nel B&B. Più tardi ha corso su una spiaggia, giocando a non farsi prendere dalle onde sulla battigia. Ha osservato il paesaggio irlandese con la malinconia tipica di chi guarda attraverso un vetro bagnato dalla pioggia, concedendosi qualche pisolino ristoratore. Alla sera ha studiato bene il menù di un pub prima di optare per le polpette.
Domani continueremo la nostra salita a nord.

GIORNO 6 - Battigia, bimbi volanti e laghi glaciali

Oggi abbiamo visitato la penisola di Dingle, la più settentrionale delle cinque penisole che formano la "mano d'Irlanda".
I numerosi punti di osservazione, le spiagge, i laghi glaciali e i ruderi di chiese e castelli hanno appagato il nostro desiderio di Irlanda.
La presenza di turisti è stata maggiore rispetto ai giorni passati, privandoci quindi della contemplazione solitaria del paesaggio.
Ulisse ci ha confermato che ama la battigia delle fredde spiagge atlantiche, oggi peró non fuggiva più le onde, anzi, ci si sarebbe tuffato dentro (se non trattenuto) con la sua tutina e l'impermeabile verde, emulando alcuni ragazzini che entravano in acqua indossando però la muta subacquea.
Per lui tutto ciò che ha meno di 8 anni è un possibile compagno di giochi e va imitato se fa qualcosa di nuovo.
Ulisse è molto fisico. Mi abbraccia le gambe se lo sgrido oppure se fa il timido di fronte ad uno sconosciuto. Le volte che non vuole stare nel suo lettino, finisce col dormire appiccicato a me oppure a Elisa. A volte me lo ritrovo col viso accanto al mio, a volte si incastona fra il mio braccio e il busto e altre volte tenta di addormentarsi sopra la mia schiena.
Ora ha scoperto la disciplina sportiva del salto sul papà.

GIORNO 7 - Fantasmi, vascelli e pozzanghere

Quando ero piccolo lessi una raccolta intitolata "Fantasmi irlandesi", con racconti di scrittori del calibro di Stoker, Le Fanu e O'Brien.
Forse la ricordate, era un libricino della Newton "100 pagine a 1000 lire", con in copertina una figura in piedi, avvolta in un lenzuolo e con un lume fra le mani.
Quella lettura mi colpì come solo certi buoni racconti sanno fare con la mente di un quattordicenne curioso e alla ricerca di paure da sfidare.
L'Irlanda è un luogo che ha sempre ispirato storie e leggende sovrannaturali, si presta facilmente grazie alle sue brughiere nebbiose e gelide, alle nubi rapide che in pochi istanti possono far piombare l'oscurità nel più sereno dei boschi e al fango che appesantisce il passo e rende facili prede.
Tutto questo mi è venuto in mente stamattina, entrando in bagno e vedendo Ulisse che, nuovamente, giocava a nascondino dietro la tenda della doccia.
Dopo la colazione abbiamo lasciato il B&B con la pioggia ad accoglierci sull'uscio.
Nel nostro esplorare la Contea di Clare, ci siamo imbattuti nell'abbazia omonima, oggi abbandonata e sorvegliata da mucche timorose e con lo sguardo docile.
Più tardi abbiamo fatto tappa al Vandeleur Walled Garden a Kilrush, per consentire a Ulisse di sgranchirsi le ossa, cioè correre a perdifiato in lungo e in largo, saltando dentro tutte le pozzanghere sul suo tragitto e attraversando anche il labirinto di siepi.
Una volta cambiato, s'è concesso una calda e asciutta dormita in macchina.
Tornati sulla costa, abbiamo visitato Spanish Point, un paesino con una maestosa spiaggia frequentata da surfisti, che prende il nome dalla sonora sconfitta della Invincible Armada (la celebre flotta spagnola di fine 1500) nello scontro con gli inglesi e che, in questo punto, subì il colpo di grazia a causa di una possente tempesta che sancì il fallimento della spedizione spagnola.
In serata siamo giunti alle Cliff of Moher, le scogliere più famose d'Irlanda, rimandando però la visita al giorno seguente così da dedicargli il tempo e l'attenzione che meritano.
Il nostro nuovo B&B si trova a Doolin, un paesino minuscolo all'interno di un territorio così selvaggio e umido, a pochi passi dall'oceano, che mi domando come possa sopravvivere all'inverno.
Appena fuori la nostra camera c'è un accogliente salottino con una finestra da cui osservare rassicurati la pioggia e il freddo che si rincorrono nella brughiera.
All'alba del giorno seguente ci ho trascorso un paio d'ore, contemplando il paesaggio, sbrigando qualche faccenda fotografica, rispondendo a email e scrivendo le righe che avete letto fin qui.

GIORNO 8 - Moher, Burren e Dunguaire

Lasciato il B&B di Doolin, abbiamo fatto tappa alle Scogliere di Moher (Aillte an Mhothair, in gaelico, che significa "scogliere della rovina"), una delle mete turistiche più celebri d'Irlanda che, nel punto più alto, raggiunge i 217 metri d'altezza sull'oceano Atlantico!
Ovviamente l'idea di non visitarle il giorno precedente, per mancanza di tempo, e di dedicargli la mattina di oggi non aveva previsto la pioggia incessante e il vento gelido oceanico che hanno martellato i visitatori tutto il tempo.
Con Ulisse addormentato nel calduccio della macchina, io ed Elisa ci siamo alternati a visitare le scogliere che, con queste condizioni atmosferiche, ci hanno ben ricordato che con la natura non si scherza e forse proprio questa è la lezione pratica più importante che potessimo avere in quel luogo.
Per riprenderci dalle ore di pioggia e vento, abbiamo fatto sosta in un pub, riscaldandoci con la zuppa del giorno e risollevandoci il morale con la Guinness.
Ulisse, esperto nel fare danni imprevedibili, ha gettato una bustina di ketchup nella birra... ma, essendo appunto una Guinness, non ci saremmo fatti problemi a finirla pure se ci avesse gettato un calzino.
Dopo pranzo siamo ripartiti in direzione nord, entrando finalmente nel maestoso Burren, una distesa rocciosa e calcarea che diverse persone descrivono come somigliante alla superficie lunare.
L'ultima tappa di oggi è stato il castello di Dunguaire, che a livello di dimensioni risulta di poco conto, soprattutto se confrontato con la Rock of Cashel, ma la sua ubicazione, in mezzo ad un lago melmoso, lo rende affascinante. L'ultima fotografia di oggi mostra Ulisse nell'istante in cui diventa invisibile.

GIORNO 9 - Cani e cavalli in Connemara

Ulisse ha apprezzato molto il nostro ultimo B&B grazie alla grande vetrata che rendeva luminoso il salotto e soprattutto al cane che è passato a salutarci e che ha avuto la priorità rispetto l'asciugatura dei capelli dopo il bagnetto.
Il programma di oggi consisteva nell'ingresso nella Contea di Galway per attraversare il Connemara, una regione selvaggia e che affascina i tanti visitatori che vi passano.
Non bastasse l'aspetto paesaggistico, è pieno di cavalli e non solo mucche e pecore come nelle aree fin qui visitate.
A Roundstone abbiamo fatto sosta in un pub per goderci una zuppa calda e del pesce in compagnia di una cesenate che ha base li, anche lei profonda amante dell'Irlanda :)
Per consentire a Ulisse di correre abbiamo passato un'oretta nel parco del paese, dotato di altalene, scivoli e altri bimbi italiani.
Continuando a percorrere la strada costiera abbiamo osservato e camminato su spiagge maestose e terreni brulli interrotti da piccoli laghi con acque scure e minacciose.
Alla sera siamo arrivati a Cliften, dove abbiamo scaricato i bagagli all'Abbey Glen Castle Hotel (un castello vero e proprio, anche se risalente al 1800) e siamo tornati in paese per due fish 'n chips, Guinness e Bulmers, in un pub tipico, con musica dal vivo. Il massimo che si possa desiderare dopo un giorno di viaggio.

GIORNO 10 - Sky Road e Kylemore Abbey

Al mattino ci siamo concessi un giro in macchina in relax lungo la Sky Road che, col cielo sereno che abbiamo trovato, è una esperienza da provare.
Assaporando ogni curva morbida, osservando i muretti in pietra scura che tagliano i verdi campi e scorgendo a valle grandi laghi e isolotti ricoperti a volte di vegetazione e a volte di rocce avvolte nel muschio, abbiamo trascorso la prima ora di viaggio.
La destinazione principale di oggi, attraverso l'incantevole Connemara, era la Kylemore Abbey, anche perché avevamo intenzione di far correre Ulisse per tutto il tempo che voleva nei grandi giardini e spazi verdi all'interno dell'abbazia.
Il biglietto è costato 14 euro ad adulto, il più alto del nostro viaggio, ma ne è valsa la pena.
Nelle due ore trascorse alla Kylemore Abbey abbiamo visitato il Walled Garden: troppo fighetto per me e troppo ordinato per i gusti di Ulisse; il parco esterno al giardino, risultato più autentico e affascinante; l'abbazia e la chiesetta neo-gotica, all'interno delle quali è stato possibile scoprire la storia romantica e amara del finanziere e parlamentare inglese Mitchell Henry e della moglie Margaret Vaughan.
In serata siamo giunti nel nostro B&B disperso nei boschi irlandesi, godendoci pure un blocco della polizia dove che mi hanno chiesto la patente e l'hanno controllata in 5 nanosecondi, probabilmente una finta perché sui turisti non riescono a fare controlli in tempi rapidi e/o perché preferiscono non complicargli il viaggio.

GIORNO 11 - Downpatrick Head e la Regina dei Pirati

Oggi abbiamo ripreso la salita a nord, attraversando la maestosa Dolough Valley, dove abbiamo incontrato delle cicliste temerarie e alcuni cartelli che raccontavano la grande carestia che ha colpito l'Irlanda a metà del 1800 e che vide centinaia di persone morire nell'attraversare questa valle in cerca di cibo.
Nella Contea di Mayo abbiamo camminato sul promontorio sferzato dai venti di Downpatrick Head: una delle aree più spettacolari d'Irlanda, dove crepacci, scogliere e voragini improvvise sono sprovviste di protezioni e l'unica misura di sicurezza è il buon senso dei visitatori.
L'attrazione principale qui è il Dun Briste (in gaelico, il "forte rotto"), un pezzo di scogliera rimasto isolato in mezzo al mare.
Leggenda vuole che in questo sperone di roccia si fosse rifugiato, quando ancora era tutt'uno col resto della costa, un re pagano di nome Crom Dubh che rifiutava la conversione al cristianesimo ad opera di san Patrizio. Dopo vani tentativi il santo patrono d'Irlanda avrebbe toccato terra col bastone facendo crollare parte del promontorio e lasciando a morire da solo sul Dun Briste il re disobbediente.
La tappa successiva è stata una fiabesca torretta, residuo del Rockfleet Castle, a cui è legata l'avvincente storia di Grace O'Malley.
Nata intorno al 1530, in un'epoca in cui era naturale che la donna dovesse sottostare alla volontà altrui per esaudirne le aspettative e quando il corpo di una donna le apparteneva fintanto che la libido altrui non lo esigeva, Grace decise di deludere alla grande le regole e prassi che pesavano su di lei. La ricerca della propria felicità e realizzazione non sarebbe stata compatibile col mondo che la circondava e allora tanto valeva rovesciarlo.
Certo, essere la figlia di Owen Dubhdarra O'Malley, capo del Clan degli O'Malley, le diede carte buone nella vita, ma bisogna poi sapersele giocare.
La storia e la leggenda irlandese qui si fondono: si dice che da giovane Grace volle partire con il padre per un'operazione commerciale in Spagna, ma, quando lui le disse che non poteva perché i suoi lunghi capelli si sarebbero impigliati alle corde della nave, lei se li tagliò, costringendolo a prenderla con sé.
Nella vita si orientò con la stella polare nella navigazione e con un orgoglio spudorato nei rapporti umani.
Grace, nel tentativo di fare una visita di cortesia a Howth Castle, venne informata che al momento la famiglia era a cena e i cancelli del castello le furono chiusi in faccia. Per ritorsione, fece rapire il figlio ed erede del Barone, che venne rilasciato sotto la promessa di tenere i cancelli sempre aperti ai visitatori inaspettati, e di mettere un posto in più durante ogni pasto. Ancora oggi questo accordo viene mantenuto dalla famiglia dei St. Lawrence, proprietari di Howth Castle.
Negli anni seguenti incontrò Elisabetta I, quando ormai l'Irlanda era sotto il dominio inglese, ma questo non la privò della spavalderia di non riconoscerla come propria regina e di "sfidarla" infrangendo alcune regole durante l'incontro formale, compreso il presentarsi armata di coltello.
Grace O'Malley ha ispirato tanti libri e canzoni, venendo citata anche in film e telefilm, come simbolo di donna indipendente e avventurosa, soprannominata Regina dei Pirati.

GIORNO 12 - Uomini, mare e Yeats

La giornata di oggi è stata all'insegna degli incontri con persone e soltanto nell'ultima parte ci siamo concessi un po' di sana contemplazione solitaria dei grandi paesaggi irlandesi. Al mattino abbiamo fatto tappa al molo di Easkey dove ho notato una famiglia intera impegnata a tuffarsi ripetutamente in mare.
A primo impatto li ho trovati interessanti perché avevano le caratteristiche tipiche che mi aspetterei dagli irlandesi (o comunque da chi vive nel Regno Unito): capelli rossi, lentiggini, sguardi severi e ginocchia segnate da croste, poi mi ha affascinato la massiccia autoironia contrastata da improvvisi ordini perentori, come quello della madre che non accettava che la figlia non trovasse il coraggio di tuffarsi.
Alla fine li ho conosciuti e sono riuscito anche a scattare un rapido ritratto di famiglia, perché percepivo comunque di essere una interferenza in un contesto meraviglioso perché spontaneo.
Continuando lungo la costa nella Contea di Sligo, ci ha colpiti il Beach Bar in mezzo al nulla di una spiaggia, ma nonostante questo pieno di avventori. Ci siamo scaldati con due zuppe di verdure e rinvigoriti con due Guinness, mentre Ulisse faceva scorpacciata di yogurt greco e mirtilli freschi.
Nel pomeriggio siamo arrivati a Strandhill, dove la spiaggia omonima è famosa per attirare tanti surfisti. Mi sarebbe piaciuto fare qualche ritratto ma non c'è stato il tempo, stare dietro a Ulisse è un lavoro a tempo pieno, così abbiamo fatto lunghe passeggiate sulla sabbia per poi concederci un gelato nel paese, pieno di visitatori essendo domenica.
Più tardi ci siamo diretti verso Sligo, passando attraverso il Benbulben e il Knocknarea, due alture molto particolari che ricordano certe forme del Grand Canyon americano, pur essendo ricoperte di vegetazione, ma che risaltano essendo nel bel mezzo di una pianura sul mare.
Si tratta di un giro di mezz'ora in auto eppure in pochi istanti ci siamo ritrovati lontani dalla civiltà e immersi in un paesaggio inquietante quanto affascinante, con boschi morenti e la pianura che si inclinava di quasi novanta gradi per raggiungere la cima delle due alture.

"[...] Sotto la vetta spoglia del Benbulben
nel cimitero di Drumcliff è sepolto Yeats.
Uno dei suoi antenati ne fu parroco
anni e anni fa; una chiesa si erge lì vicino;
presso la strada v’è un’antica croce.
E niente marmo, niente frasi convenzionali;
sul calcare scavato in quello stesso luogo queste parole sono state incise per sua volontà:
Getta uno sguardo freddo
Sulla vita e sulla morte.
Cavaliere, prosegui il tuo cammino!"

GIORNO 13 - Alture, cimiteri e vacche illuminate

La giornata di oggi è stata caratterizzata dalle sensazioni e intuizioni di qualcosa che va oltre la propria percezione.
Non credo a queste cose, non ascolto le religioni, non temo i fantasmi, non mi preoccupo se siamo in 13 a tavola e rido se qualcuno minaccia un malocchio, ma ogni tanto mi piace lasciarmi andare e mettere in stand by questo mio aspetto.
Stamattina è successo.
Abbiamo nuovamente girato attorno al Benbulben, l'altura che si trova nei pressi di Sligo, per ammirarne la forma singolare, le cicatrici dovute ai tanti fiumi istantanei che nascono con la pioggia a causa del l'inclinazione vertiginosa delle pareti, la foschia che ne avvolge sempre la parte superiore e per un attimo abbiamo pensato quanto sarebbe facile, specialmente per chi fosse vissuto secoli o millenni fa, vedere in quella forma qualcosa di divino, domandarsi quali esseri vivano lassù, perennemente nascosti dalle nubi, e come assecondarne la volontà: modificando le coltivazioni o addirittura pensando a sacrifici.
Finito il giro ipnotico, siamo tornati alla realtà e al bisogno di una tazza di caffè.
Il nostro viaggio sta volgendo al termine e quindi abbiamo abbandonato la Wild Atlantic Way per avvicinarci a Dublino.
Le ore alla guida sono trascorse con la malinconia di chi rivive internamente e metabolizza la bellezza di un viaggio e la straordinaria esperienza che ha vissuto e la loro conclusione.
Prima di arrivare ad Athlone, dove passeremo la notte, abbiamo fatto una sosta all'Abbeyshrule Cistercian Abbey e al cimitero adiacente per far passeggiare uno scalpitante Ulisse (in Irlanda e non solo è normale passeggiare o sedersi sull'erba nei cimiteri, che sono quindi vissuti e rispettati dai vivi; non sono luoghi esiliati e ai margini della società dove nessuno vorrebbe finire).
Qui è successo qualcosa.
Giunti all'angolo nord del cimitero, erano ben visibili i ruderi dell'imponente abbazia e delle mucche che sembravano meno timide del solito e che, a differenza di quanto detto scherzosamente giorni fa, sembravano veramente le custodi di qualcosa di profondo, non dimenticato, ma appartenente ad una diversa cultura e credenza, verso cui puoi portare solo un rispetto e silenziare la tua incapacità si comprendere.
Prima di andare via le nubi si sono aperte e i raggi del sole hanno reso ancora più surreale l'atmosfera del luogo.
A quel punto, per proteggere la mia diffidenza e terminare quella suggestione, sono tornato al volante.

GIORNO 14 - Sterco fumante, barche a remi e Coca Cola

Oggi è stato l'ultimo giorno in Irlanda. Avendo il volo alla sera e dovendo raggiungere Dublino con un paio di ore alla guida, la giornata ha concesso poche divagazioni.
La principale ha riguardato la foresta di St. John e Rindoon, un villaggio abbandonato risalente al 1200, con tanto di castello, nella Contea di Roscommon. Per raggiungerlo sarebbe bastata una passeggiata di un paio di chilometri in mezzo ai verdi prati, agli affascinanti muretti in pietra... e a quintali di sterco di vacca.
Non fosse bastata la pioggerellina che con i suoi tanti aghi ha punzecchiato i nostri volti tutto il tempo, ci siamo trovati a fare lo slalom fra mastodontiche cagate fumanti di mucche che, a breve distanza, ci osservavano con sguardo sornione.
Ad un certo punto ci siamo arresi al fango e alle intemperie, tornando alla macchina.
All'aeroporto ci siamo "goduti" le due ore di ritardo del volo, che almeno ci hanno permesso di far camminare Ulisse (e di fargli scoprire che la Signorina Coca Cola non è affatto male), fino a stancarlo e riuscendo così a farlo dormire quasi per tutta la durata del volo aereo verso Bologna.
Il viaggio si era concluso già ieri, in realtà, comprese le profonde e malinconiche riflessioni del caso. Oggi è stata una giornata puramente di viaggio noioso e dettata dal desiderio di tornare alla routine, ordinare le borse e gettarsi a capofitto nei progetti, nelle proposte, negli shooting lasciati prima di partire e in altri che si sono aggiunti in questi giorni.